UN'ESTATE DI CONCERTI

Dopo aver visto il Boss, inutile negarlo, nulla è più come prima, ed andare a sentire musica rischia di diventare terreno di impari confronti.

Cosa allora di meglio, tanto per andare sul sicuro, che ripartire ancora da Springsteen ? L’occasione è troppo ghiotta per lasciarsela scappare, infatti nel mezzo del suo tour europeo Bruce ha aggiunto una data a Genova l’11 Giugno, per i biglietti stavolta non ci sono problemi e c’è pure un comodo treno speciale per i fans.

Detto fatto, eccomi a Marassi pronto a ripetere la stordente esperienza di Bologna. Lo stadio non è esaurito, ma il colpo d’occhio è comunque impressionante. Per quanto riguarda l’aspetto musicale vi rimando all’articolo su Bologna, visto che tra i due concerti non ci sono state grosse differenze. C’è da agggiungere, semmai, che all’aperto il suono è ancora più potente, la scaletta è ancora più improntata sull’elettrico (con una memorabile versione di "Jungleland") e Springsteen appare anche più disponibile a lasciarsi trascinare dal pubblico, in diverse occasioni infatti lascia che siano i fans a cantare parte delle canzoni.

Anche stavolta sensazioni indescrivibili…

Una pausa di una quindicina di giorni e via con Arezzo Wave; o meglio con parte di esso, visto che, come tutti gli anni, per impegni palieschi, non me lo posso mai godere per intero. Purtroppo mi sono perso i due concerti che avrei visto più volentieri: Tricky (grande concerto mi è stato riferito da chi c’era) e Residents. Per il resto, tra i soliti fumi di salsiccia degli stands gastronomici e di incenso dei banchettini del souk mi sono visto, tra gli altri, Youssou n’Dour, Raul Paz, Molotov, P18 e vari altri. Musica spesso buona, a volte meno, ma ad Arezzo si va soprattutto per l’atmosfera magica e quasi familiare che si respira. E’ una cosa strana, con quel misto tra ambiente fatto di appassionati ma anche di gente normale che sembra li’ quasi per sbaglio, a metà tra evento musicale e sagra paesana. E questo penso sia dovuto all’ingresso gratuito, croce e delizia di Arezzo Wave. Secondo me così deve restare, anche se la nuova amministrazione aretina ha già iniziato a tuonare contro, così come mi sembra lo Stadio la sede più adatta proprio per la particolarità del pubblico che così viene coinvolto. Via signori aretini, un po’ di pazienza e comprensione, per quattro giorni l’anno si può anche sopportare un po’ di caos in più (ma quanto mai poi?).

Cosa dovrebbero dire allora a Pistoia, dove durante Pistoia Blues il centro viene invaso ormai da molti anni da residuati hippy o simili ?

Ed anche a Pistoia ho fatto un salto per gustarmi Patti Smith.

Bella serata, sin dall’apertura affidata a Zachary Richard con il suo cajun e a Dr. John, massimo esponente del "New Orleans sound". Entrambi hanno offerto un set energico e divertente, che ha scaldato a dovere il numeroso pubblico. Dopo è stata la volta dei redivivi Jetro Tull. Qui vorrei esimermi da ogni commento, visto che non mi sono mai piaciuti molto, tantomeno adesso che ci propinano minestra riscaldata infinite volte. Ad onor di cronaca debbo comunque riconoscere che musicalmente e tecnicamente se la cavano ancora egregiamente, ed in un’ora scarsa di concerto hanno scatenato tutti i presenti con un veloce ripasso di tutti i loro hits.

E poi, evidentemente, non tutti la devono pensare come me, visto che al termine del concerto di Ian Anderson e compagni molto del pubblico presente ha lasciato Piazza Duomo, evidentemente già sazio delle ore di musica ascoltate ed incurante che da lì a poco sarebbe salita sul palco Patti Smith.

E Patti non ha deluso i presenti, riuscendo pian piano a conquistare tutto il pubblico con un set grintoso, elettrico e sporco al punto giusto. Si sono alternati pezzi recenti e vecchi cavalli di battaglia con un paio di intermezzi in cui ha declamato versi con sottofondo musicale, ricreando atmosfere molto "beat generation". Su tutto una grande "People have the power", mentre ha un po’ deluso (giudizio del tutto personale) "Because the night", in versione sciatta e striminzita, penalizzata soprattutto da un tempo di batteria non molto azzeccato. Da segnalare nel gruppo la presenza, ad una delle due chitarre, del grande esperto di rock americano Lenny Kaye, da sempre a fianco della Smith.

Tra Arezzo e Pistoia altro grande evento imperdibile: il concerto dei R.E.M. alla stadio di Bologna.

Preceduti dalle esibizioni di Afterhours (buono il loro set ma penalizzato dall’esiguo tempo a disposizione), Wilco (onesto suono americano senza lode e senza infamia) e Suede (molto meglio dal vivo che su disco) alle 21.30 in un palco scarno ma illuminato a intermittenza da moltissime insegne al neon che riproducevano immagini legate in qualche modo al gruppo, sono apparsi Michael Stipe e compagni, accolti, sulle note di "Airportman", da un pubblico in delirio.

E già con una versione potentissima di "Lotus" il concerto decolla subito; Stipe è il solito folletto invasato che si dimena senza tregua calamitando l’attenzione di un pubblico dispostissimo a farsi trascinare, ma via via che le canzoni si susseguono viene fuori anche il fondamentale apporto della chitarra di Peter Buck; una chitarra dal suono particolare, non ortodosso, che a tratti ricordava quasi un campionatore, ma funzionalissima, come detto, nell’economia del suono del gruppo.

Tra i molti grandi pezzi da segnalare "Daysleeper", "Everybody hurts" e l’hit "Losing my religion", con cui hanno chiuso il concerto prima dei bis, aperti dal solo Stipe alla chitarra acustica (suonata ad onor del vero molto male) che ha intonato una versione di "Hope" ancora più simile a "Suzanne" di Leonard Cohen di quella su disco e conclusi con una stratosferica versione di "It’s the end of the world", cantata a squarciagola da tutto lo stadio impazzito.

Unico neo, in un concerto altresì memorabile, le noiose interruzioni tra un pezzo e l’altro che, se talvolta erano giustificate dal cambio di strumenti, in altre occasioni non avevano apparente ragion d’essere, come se il gruppo avesse voluto tenere a freno l’entusiasmo del pubblico. Veramente strano.

Ultimo concerto prima delle vacanze l’attesissimo appuntamento fiorentino con Tom Waits.

Confesso di essermi avvicinato all’evento un po’ prevenuto; era una vita che aspettavo di poter vedere dal vivo uno dei miei idoli, per cui quando avevo saputo che si sarebbe esibito a Firenze la prima reazione era stata uno stato euforico ben presto però attutito dal fatto che il concerto si sarebbe tenuto al Teatro Comunale e di conseguenza i biglietti disponibili sarebbero stati pochi e costosissimi. Insomma la cosa si stava trasformando in un evento sì, ma per pochi eletti. Avevo esternato questi miei timori anche in una chat con gli organizzatori, ma la situazione quella era e quella era rimasta.

Quando nel tardo pomeriggio del 23 Luglio mi avvio verso il Comunale, mi rendo però conto che i fans hanno prevalso, anche a costo di grossi sacrifici economici. Infatti il grosso del pubblico è composto da appassionati, accorsi anche dall’estero, pur di non perdersi il "vecchio Tom". Anche la scelta del luogo chiuso (anche se è stato lo stesso Waits a dettare questa condizione) e del Comunale in particolare, col senno di poi, devo dire che è stata azzeccata. Non è stato utilizzato il palco canonico, ma ne è stato costruito un altro a ridosso del pubblico, utilizzando la "buca" degli orchestrali. Il palco, molto spoglio, sembra quasi quello di un vecchio locale di infima qualità. Vecchi amplificatori, una improbabile batteria, marimbe, un’organetto quasi da bambini ed un vecchio piano verticale dall’aria scordata, il tutto illuminato da tre lampade tipo quelle da biliardo.

Rimane il prezzo del biglietto, ma vi giuro che nessuno ha rimpianto i soldi spesi.

Quando finalmente si spengono le luci, l’attesa è al parossismo: ecco che dal fondo del teatro si sente una voce che potrebbe essere benissimo quella del diavolo: è "lui" che, con in mano un megafono, nel buio totale, illuminato da un solo "occhio di bue", gracchia "Black rider" mentre traversa la platea lanciando coriandoli sul pubblico, già tutto in piedi in uno scrosciante applauso liberatorio. Non è che l’inizio di una cavalcata veramente infernale, con la voce di Tom che dal vivo è ancora più assurda e minacciosa che su disco; in un perfetto mix scorrono nuovi e vecchi pezzi, si va da "Jockey full of Bourbon" all’ assurdo predicatore di "Chocolate Jesus ", dalle dolci "Hang down your head " e "Innocent when you dream" alla tiratissima "16 shells", una delle vette del concerto, fino al ripescaggio delle vecchie ma sempre belle "Lookin, for the heart of the Saturday night" e "Ol' 55" nel corso dei bis. Il vechio Tom si è anche rivelato un buon animale da palcoscenico, intrattenendo il pubblico con storielle e battute assurde e catturando l’attenzione con semplici ma efficaci trovate, come la (finta) polvere sotto i piedi che sollevava nuvole ad ogni colpo o i piccoli specchietti applicati sull’immancabile cappello a simulare, illuminati dai riflettori, un’ effetto discoteca. Insomma, un grande spettacolo ed una conferma, se ce ne fosse stato bisogno, della bravura del vecchio Tom.

Il vostro

                                                                                 I ZIMBRA